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In connessione con il nostro Maestro radice, il Buddha

Thay ha scritto questa lettera a tutti i suoi allievi nell’autunno del 2014, quando la sua salute cominciava a peggiorare. Anche se non aveva abbastanza forze per offrire discorsi di Dharma, è stato in grado di dettare e correggere questa lettera. 

Il testo è stato tradotto dal vietnamita, in modo che tutti possano godere del suo ricco, profondo e fervido insegnamento su come la “pratica devozionale” e la figura del “Buddha” possano essere comprese nella tradizione di Plum Village. 

Thay ci insegna in che modo preservare la nostra pratica autentica e viva, e vedere il Buddha non come un Dio, ma come il nostro vero ” maestro radice”, la nostra anima gemella.


Fragrant Creek Hermitage
27 settembre 2014

 

Miei cari figli,

All’epoca in cui Thầy entrò nel tempio, all’età di sedici anni, era consuetudine riferirsi a Shakyamuni Buddha come al nostro “maestro radice”. Ma il Buddha che Thầy incontrò allora non era tanto un maestro, quanto una figura leggendaria: capace di miracoli, dotato di immensi poteri spirituali, molto diverso dagli altri esseri umani. Non incontrammo né il Buddha del Buddhismo delle origini, né il Buddha Theravada. Il Buddha del Buddhismo delle origini è un maestro che conduceva una vita molto semplice: stendeva il suo tappetino per sedersi sulla terra per una condivisione sul Dharma, mangiava con gli altri monaci e offriva discorsi di Dharma. Ma questa non è l’immagine che abbiamo incontrato nel tempio. Chiamavamo il Buddha “il nostro maestro”, ma in realtà tra noi e Shakyamuni c’era una grande distanza. Shakyamuni era una figura sacra, miracolosa. Solo alcuni decenni dopo Thầy ha scoperto la vera immagine di un Maestro radice, un vero Maestro radice. Proprio come noi diciamo di avere un Tempio radice, o la nostra Natura radice, così ognuno di noi ha un Maestro radice.

E così, quando diversi decenni dopo Thầy ha scoperto chi era veramente il Buddha, ha sognato di poter scrivere un libro che permettesse anche agli altri di vedere il Buddha non come una divinità miracolosa, ma veramente come un maestro. Con tutto il cuore, Thầy ha iniziato a scrivere Old Path White Clouds (Vita di Siddharta il Buddha, narrata e ricostruita in base ai testi canonici pali e cinesi, Ubaldini, 1992), per liberare il Buddha da ogni aura di mistero, in modo che potesse essere visto chiaramente come una persona, un Maestro al quale tutti potessimo sentirci vicini. Per Thầy, scrivere questo libro ha rappresentato un lavoro di grande valore. Ha contribuito a ritrarre l’immagine di un Maestro che ha vissuto in modo semplice, e che ha superato le sfide che si è trovato ad affrontare non con poteri miracolosi, bensì grazie alla consapevolezza e alla compassione.

Il Buddha che Thầy ha incontrato a sedici anni era il Buddha della Scuola del Tantrismo. Nei templi vietnamiti di quel tempo c’erano due sessioni di canti. La sessione del mattino era interamente tantrica. Eravamo soliti cantare dhāraṇī, o mantra, come il Śūraṅgama Dhāraṇī e il Mahā Karuṇā Dhāraṇī e altri dieci mantra. Il canto della sera apparteneva alla liturgia della Terra Pura, dedicata al Buddha Amitābha. Quando pratichiamo il Buddhismo Amitābha, l’immagine di Shakyamuni Buddha svanisce. Davanti all’immagine di Amitābha negli insegnamenti della Terra Pura, Thầy non aveva avuto la possibilità di incontrare il suo Maestro radice. Eppure a quel tempo Thầy praticava con tanto impegno, e aveva una Bodhicitta tanto potente, un’aspirazione tanto forte e profonda, che era ancora determinato a praticare e a trasformarsi. Così, anche se il Buddha che Thầy aveva incontrato era molto lontano, Thầy poteva accettarlo. Inoltre, la scrittura che introduce il Śūraṅgama Dhāraṇī, che i nostri antenati spirituali avevano scelto per il canto del mattino, era molto toccante. Ogni monaco novizio e ogni monaca novizia che leggeva quel sutra si sentiva profondamente toccato. Il sutra descrive l’aspirazione del Venerabile Ānanda a diventare un Buddha affinché tutti gli esseri possano essere liberati. Ogni volta che lo recitavamo, in noi nasceva un sentimento profondo, e questo per Thầy è stato una spinta. Thầy non riusciva ancora a vedere le contraddizioni e l’indottrinamento nella sua educazione.

Nel sutra c’erano dei passi molto commoventi, come ad esempio:

Che io possa realizzare al più presto i frutti della pratica, e così diventare un Buddha,
Per recarmi nel mondo e aiutare a trasformare e liberare gli esseri
numerosi come i granelli di sabbia del Gange.
Faccio voto, con cuore aperto e accogliente, di servire ogni regno,
Ed essere così degno di poter ripagare per ora la profonda gratitudine che devo al Buddha. 

Quando un giovane monaco o monaca legge questo passaggio, si sente molto toccato. Anche il Venerabile Ānanda a quel tempo era un giovane monaco. In passato, Thầy sapeva solo recitare e ascoltare passi come questo, e non riusciva a vedere le contraddizioni che cotengono. Anche in queste righe:

Onorato dal Mondo,
Faccio voto di essere uno dei primi ad andare
nel mondo pieno di sofferenza, malvagità, violenza e dei cinque piaceri sensuali,
per aiutare a liberare gli esseri.
Che tu mi sia testimone mentre faccio voto
finché c’è un essere vivente che non è ancora un Buddha,
non sceglierò di raggiungere il nirvāṇa.

Ci sono voluti diversi decenni a Thầy per esaminare quest’ultima frase, e capire che non era corretta. Questa frase dice che una volta raggiunto il nirvāṇa, ci troviamo in un luogo dove non abbiamo bisogno di fare nulla, solo di riposare ed essere felici. Quindi non è giusto raggiungere il nirvāṇa, perché non saremmo in grado di liberare gli esseri; una volta raggiunto il nirvāṇa, tutto quello che dovremo fare sarà essere felici. Questa è una visione molto scorretta del nirvāṇa. In linea di principio, quando abbiamo un’intuizione profonda, riusciamo a stare  in contatto con la natura del non nascere e non morire, non venire e non andare, non essere e non non-essere, e questo è il mondo della pace, del benessere, della felicità: questo è il nirvāṇa. Se non possiamo essere felici di queste cose, come possiamo trovare la forza sufficiente per continuare a lavorare per liberare gli esseri? Quindi, dire: «Non raggiungerò il nirvāṇa perché devo rimanere nel mondo, affrontando tutte le difficoltà del mondo per liberare gli esseri viventi», è qualcosa di completamente sbagliato. Ma Thầy non poteva capirlo, perché Thầy era ancora un giovane monaco.

Questo tipo di fraintendimento è sorto a causa dei moltissimi travisamenti sul significato di nirvāṇa. Per esempio, c’è l’idea di nirvāṇa con residuo e nirvāṇa senza residuo. Il nirvāṇa senza residuo è quello in cui non ci sono i cinque aggregati. Ma se nel nirvāṇa non ci sono i cinque aggregati, come si può provare la pace, la calma e la gioia del nirvāṇa? Nel nirvāṇa con residuo abbiamo realizzato il percorso e raggiunto il nirvāṇa, eppure abbiamo ancora il corpo e i cinque aggregati. Pensiamo che quando abbiamo ancora un corpo con i cinque aggregati possiamo ancora avere mal di testa o mal di stomaco. Possiamo ancora avere le gambe stanche o le braccia doloranti, e allora diciamo che quello non è il nirvāṇa senza residui. È un modo di vedere le cose molto sbagliato. Questo modo di vedere implica che la felicità e la sofferenza sono due cose completamente separate che non hanno bisogno l’una dell’altra: che la felicità può esistere da sola e non ha bisogno della sofferenza; o che la sofferenza può esistere senza felicità. Questo è un modo di guardare dualistico che non è corretto secondo lo spirito dell’interessere del Buddhismo.

Nel Buddhismo c’è una differenziazione tra i cinque aggregati, e i cinque aggregati dell’attaccamento. Infatti, i cinque aggregati sono qualcosa di molto meraviglioso, ma se con la nostra mente ci attacchiamo ai cinque aggregati, e diciamo che i cinque aggregati siamo noi, o che ci appartengono, allora i cinque aggregati diventano i cinque aggregati dell’attaccamento. Upādāna significa afferrare e l’oggetto dell’afferrare. Il nirvāṇa non è un luogo dove non ci sono i cinque aggregati, ma dove i cinque aggregati non sono i cinque aggregati dell’attaccamento. I cinque aggregati sono meravigliosi, proprio come i cinque aggregati del Buddha.

I giovani che sono appena diventati monaci e monache incontrerebbero la seguente immagine di Shakyamuni Buddha secondo il Tantrayana, nei versi introduttivi al Śūraṅgama Dhāraṇī:

“Dalla sommità del suo capo, il Tathagatha irradia raggi di luce che contengono cento preziosi gioielli. All’interno di quei raggi di luce il Tathagatha brilla, un loto dai mille petali appare, e seduto su quel loto compare un corpo di trasformazione di un Buddha. Anche dalla sommità della testa del Buddha di trasformazione si irradiano dieci aureole, e ognuna di queste aureole contiene cento gioielli preziosi. In ognuna di queste aureole appaiono molti Protettori del Dharma, numerosi come i granelli di sabbia del Gange. Ogni Protettore del Dharma ha in una mano una montagna e nell’altra uno scettro di diamanti, e la loro presenza è percepita in tutto lo spazio. Tutta la congregazione, vedendo questo, prova grande paura, timore e amore. Contemplando l’Onorato dal Mondo, tutti pregano sinceramente l’Onorato dal Mondo per la sua compassione e la sua protezione, e sono ansiosi di ascoltarlo. Il capo circonfuso di luce, l’Onorato dal Mondo inizia così a proclamare il Śūraṅgama Dhāraṇī…”

Nel Buddhismo delle origini e nel Buddhismo Theravada non ci potrebbe mai essere questo tipo di visualizzazione. Il Buddha non è una divinità miracolosa, circonfuso con un’aureola, così lontana dagli esseri umani. Nella tradizione Tantrica, questi protettori del Dharma sono divinità yakṣa che seguono il Buddha e fanno voto di difendere il Buddhadharma. L’immagine di una divinità protettrice del Dharma raffigura qualcuno che tiene in mano uno scettro di diamanti, uno scettro che ha il potere di distruggere chiunque osi fare del male al Buddhadharma. Immaginando l’aureola radiosa del Buddha e tutte le divinità protettrici del Dharma che brandiscono i loro scettri di diamante, nell’intero spazio, la comunità prova timore ma anche grande rispetto e amore. Ecco perché tutti ascoltano con attenzione il Buddha quando recita il Śūraṅgama Dhāraṇī. Questo è il Buddhismo Tantrico.

Anche se in Vietnam diciamo che i nostri sono “templi buddhisti Zen”, in realtà nella maggior parte dei templi si pratica il Buddhismo Tantrico e il Buddhismo della Terra Pura. La mattina si recitano i dhāraṇī e la sera si invoca Amitābha. L’immagine di un Buddha seduto circonfuso da un alone di luce, che manifesta una vasta assemblea di divinità protettrici del Dharma in tutto lo spazio, che recita un sacro dhāraṇī per venti minuti, questa non è un’immagine in cui la nuova generazione o gli intellettuali del nostro tempo possano riconoscersi. Così come l’immagine di un Dio creatore come un vecchio con la barba seduto tra le nuvole, che decide il destino di tutti nel mondo, non è qualcosa in cui i giovani di oggi possano credere. Eppure ogni mattina continuiamo a recitare questo testo e a visualizzare l’immagine di una divinità come quella. Come può un Buddhismo come quello essere ancora adeguato al nostro tempo?

Nel prologo dove è formulato il voto del Venerabile Ānanda che apre il sutra recitando il Śūraṅgama Dhāraṇī si trova anche una lode dello stesso Śūraṅgama Dhāraṇī:

Questo Śūraṅgama Dhāraṇī è particolarmente prezioso
Ha la capacità di distruggere le mie percezioni erronee,
La capacità di recidere le catene
accumulate in innumerevoli vite
Permettendomi di realizzare il dharmakāya
senza vivere numerose esistenze.

Le “percezioni erronee” sono percezioni “al contrario”. Per esempio, quando diciamo che qualcosa di nero è in realtà bianco, o che la sofferenza è felicità, o quando le cose sono impermanenti pensiamo che siano permanenti, o quando qualcosa non ha un sé separato e noi pensiamo che abbia un sé separato. Queste sono “percezioni erronee” o “percezioni al contrario”. L’espressione “percezioni erronee” compare anche nel Sutra del Cuore, quando si dice che il Bodhisattva ha distrutto tutte le percezioni erronee.

Le quattro percezioni erronee, come sono comunemente conosciute:

Qualcosa è impuro, noi lo chiamiamo puro
Qualcosa è doloroso, noi lo chiamiamo piacevole
Qualcosa è impermanente, noi lo chiamiamo permanente
Qualcosa ha un sé separato, noi diciamo che non ha un sé separato

Queste sono le quattro “percezioni al contrario” che i monaci del passato ci hanno insegnato in modo molto dogmatico. Nei Quattro Fondamenti della Consapevolezza – i fondamenti del corpo, delle sensazioni, della mente e degli oggetti della mente – contempliamo il corpo nel corpo, le sensazioni nelle sensazioni, la mente nella mente, i dharma nei dharma, ci viene insegnato a vedere il corpo come impuro, risvegliando così solo sofferenza. Ci viene detto che il corpo non può essere puro; le sensazioni causano solo sofferenza; la mente può essere solo impermanente; e gli oggetti della mente possono essere solo non sé. Lo impariamo a memoria e siamo indottrinati a crederci. «Il corpo è impuro, le sensazioni causano dolore, la mente è impermanente, gli oggetti della mente sono non-sé». Viene presentato come una sorta di verità assoluta che non può essere messa in discussione. Nei dodici anelli della genesi interdipendente le sensazioni sono considerate sofferenza. Ma se le sensazioni sono solo sofferenza, come possono portare alla brama? Se le sensazioni risvegliano un desiderio o un attaccamento, devono essercene anche di piacevoli.

Quando il Buddha era vivo su questa terra, il termine dharmakāya era già in uso. Un giorno il Buddha si recò in visita presso Vakkhali, che stava morendo e gli chiese,

«Vakkhali, hai qualche rimpianto?»

«Onorato dal Mondo, non rimpiango nulla. C’è solo una cosa, ed è che sono troppo malato per venire a trovarti e gioire della tua presenza quando offri discorsi di Dharma sul Picco dell’Avvoltoio».

Era noto che Vakkhali provava un forte attaccamento verso il Buddha, tanto che il Buddha non gli aveva permesso di essere il suo attendente.

Così il Buddha disse,
«Vakkhali, questo corpo fisico è impermanente. È nella sua natura disintegrarsi, un giorno. Se possiedi il dharmakāya del Buddha, allora non ti mancherà nulla e non avrai più nulla da rimpiangere».

Queste parole mostrano che ai tempi del Buddha il termine dharmakāya, Corpo del Dharma, esisteva già. Di solito con Corpo del Dharma intendiamo gli Insegnamenti, vale a dire le Quattro Nobili Verità, il Nobile Ottuplice Sentiero, i Sette Fattori dell’Illuminazione, e le pratiche che possono aiutarci a trasformare la nostra sofferenza, nutrire noi stessi e gli altri, in modo da essere liberati, affrancati dalla schiavitù, trasformare le nostre afflizioni, ed essere realmente in grado di aiutare gli altri e il mondo. A quel tempo, non esisteva ancora l’espressione Corpo del Sangha. Abbiamo dovuto aspettare altri venti secoli perché l’espressione Corpo del Sangha vedesse la luce a Plum Village. Dei tre termini – Corpo del Buddha, Corpo del Dharma e Corpo del Sangha – il Corpo del Sangha è estremamente importante. Come monaca o monaco, se non hai un Corpo del Sangha, non potrai mai realizzare la tua aspirazione. Ecco perché dopo che Shakyamuni ha ricevuto l’illuminazione, la prima cosa che ha fatto è stato trovare amici per formare un Sangha di sei persone. Il Buddha ha visto molto chiaramente che senza un Corpo del Sangha il sentiero del Buddha non può mai realizzarsi.

I giovani monaci e monache, quando ricevono l’ordinazione, hanno una bodhicitta molto potente, una bodhicitta molto solida. Fanno voto di praticare per diventare un buon monaco o una buona monaca, capace di trovare la propria libertà e di aiutare gli altri a fare lo stesso. Fanno voto di essere un monaco o una monaca in grado di portare pace, gioia e liberazione alla propria comunità di pratica. Dobbiamo costruire il corpo monastico del sangha in modo da poter organizzare la pratica per poter aiutare anche i praticanti laici a guarire, a trasformarsi e a liberarsi dalle proprie sofferenze. Il voto del Venerabile Ānanda nel prologo del Śūraṅgama Dhāraṇī è molto commovente. Questo era il suo sogno, ed è anche il sogno di tutti coloro che vogliono diventare un buon monaco o una buona monaca.

Il canto La mia aspirazione scritto dal Maestro Zen Di Son esprime lo stesso sogno. Leggendo questo canto vediamo il sogno di un giovane monaco o monaca che desidera diventare un grande Maestro di Dharma per aiutare il mondo in ogni modo possibile. Nei primi anni, molti di noi si nutrono di queste profonde aspirazioni, ma se non abbiamo la possibilità di imparare a gestire le nostre sensazioni e le nostre emozioni dolorose, di imparare a generare gioia e felicità per nutrirci, di imparare a usare l’ascolto profondo e la parola amorevole per ristabilire la comunicazione con i nostri fratelli e sorelle, se non impariamo a fare tutte queste cose non saremo in grado di costruire il sangha monastico. Non avremo i mezzi essenziali per realizzare il voto profondo di un monaco o di una monaca. Sebbene molti di noi abbiano l’opportunità di studiare negli Istituti Buddhisti, nei corsi di Studi Buddhisti di livello elementare, intermedio o superiore, gli insegnanti di Dharma non insegnano le pratiche di base, ma si limitano a insegnare le dottrine religiose affinché i loro allievi le imparino a memoria e le trasmettano alle generazioni future. Questo è il nostro modo antiquato di imparare, ed è necessario cambiarlo. Gli insegnanti di Dharma devono insegnare come respirare, camminare e stare seduti, come gestire le formazioni mentali come rabbia, tristezza, odio e gelosia; come gestire il dolore e la sofferenza, e calmare le sensazioni e le emozioni forti. Una volta che sapremo come fare queste cose, saremo in grado di aiutare i nostri fratelli e sorelle a fare lo stesso, e saremo in grado di insegnare ai nostri allievi.

Quando sappiamo come praticare la parola amorevole e l’ascolto profondo per portare alla riconciliazione e ristabilire la comunicazione, solo allora possiamo davvero costruire un Corpo del Sangha. Il Corpo del Sangha è il mezzo fondamentale per poter realizzare il nostro desiderio più profondo e la nostra aspirazione di monaco o di monaca. Purtroppo non impariamo queste cose negli Istituti Buddhisti, e anche la maggior parte dei monaci più anziani e degli insegnanti di Dharma non sanno come praticarle. Per questo motivo, anche se ci sono solo tre o quattro fratelli che vivono insieme, non possono vivere in armonia l’uno con l’altro: ognuno nutre un sogno diverso. E nella vita quotidiana di monaci o monache rispondiamo solo alle esigenze del nostro tempio di offrire rituali devozionali, alla ricerca di comodità materiali e relazioni affettive. Un monaco o una monaca in grado di soddisfare queste esigenze ha una vita più facile degli altri, specialmente se sa cantare bene o ufficia cerimonie di offerta molto belle, e gli altri monaci diventano invidiosi di coloro che hanno queste capacità.

Alla fine, la maggior parte dei monaci e delle monache desidera solo diventare abate o badessa di un tempio, con un costante afflusso di denaro, prendersi cura del tempio, e formare un paio di novizi per far fronte alle richieste di ufficiare cerimonie di offerta e cerimonie funebri. Vivendo così non realizzeremo mai il nostro sogno; rimarrà solo un sogno. Ogni mattina all’alba cantiamo il prologo del profondo voto del Venerabile Ānanda, cantiamo il canto La mia aspirazione del Maestro Di Son, eppure così non realizzeremo mai il nostro sogno. Questo vale per il 95% dei monaci e delle monache, che alla fine diventano solo monaci da cerimonia. Molti monaci sono rimasti prigionieri di posizioni prestigiose e titoli speciali nella gerarchia buddhista.

Solo un numero ridotto di monaci, meno dell’1%, diventano degli studiosi. Ma anche se uno studioso è un bene molto prezioso, non è in grado di costruire un sangha e di aiutare le persone a liberarsi dalle proprie sofferenze. In tempi recenti della storia del Vietnam, alcuni grandi monaci sono stati in grado di costruire un sangha e di aiutare gli altri a liberarsi dalle proprie sofferenze. Tra questi c’è il Maestro Zen Phước Huệ del Tempio Thập Tháp di Bình Định, il Maestro Zen Trí Thủ, Abate del Tempio Ba La Mật di Huế, il Maestro Zen Thiện Hòa, Direttore dell’Istituto di Studi Buddhisti del Sud Vietnam presso il Tempio Ấn Quang di Sư Vạn Hạnh Street, a Saigon, il Maestro Zen Thiện Hoa, Abate del Tempio Phước Hậu di Trà Ôn, e il Maestro Zen Trí Tịnh dell’Istituto di Studi Buddhisti Liên Hải, la Venerabile Monaca Hải Triều Âm e il Maestro Zen Thích Thanh Từ, che è ancora in vita.

Vi prego di capire con chiarezza la situazione del buddhismo vietnamita di oggi, perché questo può contribuire al vostro risveglio. L’obiettivo di un monaco o di una monaca non è cercare comodità materiali e costruire legami affettivi, bensì diventare un buon monaco o una monaca in grado di costruire un sangha, aiutare il mondo, e realizzare la vera aspirazione di un monaco o di una monaca, vale a dire nutrire e realizzare la forte bodhicitta che era presente all’inizio.

Il Dharmakāya così come appare nel Buddhismo delle origini significa prima di tutto «gli insegnamenti essenziali del Buddha e i metodi di pratica per gestire la sofferenza, generare felicità e gioia e liberare noi stessi per il bene di tutti gli esseri». Nel Buddhismo delle origini, Dharmakāya significa semplicemente questo, e potrà avere continuazione solo se sapremo come trasmetterlo alle generazioni future.

Ma quando arriviamo alla Scuola Yogācāra del 5° e 6° secolo d.C., inizia a nascere l’idea del Dharmakāya puro del Vairocana Tathāgata. Dharmakāya qui non significa più i metodi di pratica, ma di fatto il Corpo Cosmico, il Corpo del Regno del Dharma. Il Buddha non è più semplicemente comprensione e azione, bensì il cosmo stesso. Se ascoltiamo con attenzione la musica del vento o il canto degli uccelli, se contempliamo ogni fiore, pianta o uccello, possiamo vedere che ognuno di questi fenomeni sta insegnando il Dharma. Se sappiamo ascoltare con attenzione, ascolteremo gli insegnamenti delle Quattro Nobili Verità, del Nobile Ottuplice Sentiero, dei Cinque Poteri e dei Sette Fattori del Risveglio. Il Buddha è ancora presente. Il Buddha non è mai morto e continua a offrire discorsi di Dharma tramite il cosmo. In questo senso, il Buddha è il cosmo, e il Buddha è anche il creatore che crea il cosmo. Ne deriva un’idea del Dharmakāya che è molto vicina all’idea di Dio nelle religioni teiste. Questo ha i suoi lati positivi, perché ha dato origine a un’importante fonte di ispirazione nel Buddhismo Mahayana. Il bambù viola, il fiore giallo, la luna piena e le nuvole bianche sono tutte manifestazioni concrete del Corpo del Dharma, e ognuno di questi meravigliosi fenomeni sta offrendo un discorso di Dharma. Questo è lo spirito poetico del Buddhismo Mahayana.

Poi c’è anche il modo di intendere il Sambhogakāya o Corpo di Fruizione. Nella Scuola Yogācāra, il Buddha è visto come qualcuno che compie grandi azioni e ha accumulato innumerevoli meriti. Sembra impossibile che questo corpo di fruizione sia un corpo fisico così piccolo, alto solo 180 centimetri, e così immaginiamo un corpo di fruizione del Buddha alto trenta metri. Ma solo le persone che hanno occhi divini sono in grado di vedere il Corpo di Fruizione del Buddha. I trentadue segni maggiori e gli ottantadue segni positivi sono tutti così meravigliosi, e il Buddha è lassù nei cieli. Questo è il vero Buddha. E questo piccolo essere vivente, alto nemmeno due metri, seduto nella posizione del loto su una stuoia nella foresta, non è altro che un corpo di trasformazione del Buddha, non è davvero il Buddha. Possiamo vedere questa influenza nel Sutra del Loto, dove si dice: «Il Buddha non è solo Shakyamuni Buddha seduto lì a tenere un discorso di Dharma sul Picco dell’Avvoltoio. Egli ha innumerevoli Corpi di Trasformazione che sono presenti ovunque nel mondo. Quando necessario, il Buddha può evocare i suoi milioni di Corpi di Trasformazione in tutto il mondo, e questo piccolo corpo del Buddha non è considerato importante». Le persone vengono travolte da queste idee e da questo modo di considerare il Corpo del Dharma e il Corpo di Fruizione, e guardano con sufficienza il corpo umano del Buddha.

Nella sua lunga poesia Aprile, Thầy ha scritto «Il piccolo fiore non ha mai smesso di cantare». Il fiore nel profondo della foresta è anch’esso il Corpo di Dharma del Buddha, e non ha mai smesso di offrire un discorso di Dharma, non ha mai smesso di cantare. Questa immagine è stata influenzata anche dall’idea del Corpo del Dharma del Buddha.

Il Buddha è il cosmo; il cosmo è un corpo, il Corpo del Regno del Dharma è chiamato Corpo Cosmico. Anche questo è corretto. Tutte le nuvole e tutte le onde hanno in sé il corpo del grande oceano. Una nuvola non è solo una nuvola; un’onda non è solo un’onda. La nuvola e il fiume sono anch’essi il grande mare, hanno il loro corpo marino. Questa è la verità. Ecco perché quando un giovane monaco o una giovane monaca entrano nel tempio non incontrano il Buddha come essere umano, incontrano il Buddha come il Puro Dharmakāya di Vairocana o Locanā, un corpo di fruizione assolutamente perfetto chiamato Locanā. Nel canto di offerta che si intona prima di un pasto formale, tutti pratichiamo il mudrā del buon auspicio e cantiamo l’offerta al Puro Dharmakāya del Buddha Vairocana e al Corpo di Fruizione del Buddha Locanā, e i 1.100 trilioni di Nirmāṇakāya (corpi di trasformazione) del Buddha Shakyamuni.

Thầy ricorda quando una volta alcuni studenti universitari, tra cui la signorina Chi, la signorina Nhiên, la signorina Bích, la signorina Phượng, e i fratelli anziani Bá Dương, Huệ Dương, Chiểu, Khá, Cương, vennero a visitare il Venerabile Thanh Từ nel Tempio Ấn Quang (a Saigon). Thầy Thanh Từ a quel tempo era ancora molto giovane e non aveva ancora iniziato a studiare il Buddhismo Zen. Thầy Nhất Hạnh aveva trascritto alcune gatha Zen dei maestri Zen ancestrali del Vietnam delle dinastie Ly e Tran e le offrì a Thầy Thanh Từ. Il Venerabile Thanh Từ a quel tempo era ancora in un insegnante di Dharma molto giovane. Apprezzò molto le gatha e da allora iniziò ad interessarsi allo studio del Buddhismo Zen.

Quel giorno, Thầy sedeva e ascoltava Thầy Thanh Từ e i suoi allievi mentre parlavano. La signorina Phượng (Sister Chân Không) chiese, «Thầy, tu insegni che questo corpo è impuro. Contiene pus, escrementi, sangue e sudore, e che non dovremmo provarne attaccamento. Quando guardo in profondità, vedo che anche in Thầy ci sono pus, escrementi, sangue e saliva. Allora, perché proviamo ugualmente amore e rispetto?» Thầy Thanh Từ sorrise alla domanda di quella studentessa, ma non rispose nulla. La domanda mostra come la meditazione sulle impurità non sia sempre efficace. Sebbene ripetiamo più volte a pappagallo “il corpo è impuro, il corpo è impuro”, la nostra mente rimane inalterata e noi rimaniamo ancora attaccati al corpo. Lo stesso capita quando ripetiamo frasi come “le sensazioni causano sofferenza”. È come mangiare un peperoncino piccantissimo. Sappiamo che è piccantissimo, eppure lo mangiamo lo stesso.

Thầy ricorda anche che una volta la signorina Phượng, la signorina Nhiên, la signorina Chi, la signorina Bích, la signorina Nga e molti altri si recarono a visitare Thầy Thanh Từ presso l’ospedale Grall, e videro che Thầy aveva una scatola di biscotti. Le donne si dissero: «Thầy non sa che i biscotti contengono uova e burro. Se lasciamo che Thầy li mangi, sarà colpa nostra. Finiamo tutti i biscotti così Thầy non li mangerà e non sarà colpa nostra». Così aprirono la scatola e li mangiarino. Portarono a casa i biscotti rimasti in modo che Thầy non li mangiasse. Quando Thầy Nhất Hạnh era alla Princeton University, un giorno lasciò la finestra della sua stanza aperta. Mentre non c’era, uno scoiattolo saltò da un acero nella stanza, aprì la scatola di biscotti e li mangiò quasi tutti. Quando tornò, Thầy vide che non erano rimasti molti biscotti. Forse, come la signorina Phượng e gli altri, lo scoiattolo temeva che Thầy mangiasse i biscotti e violasse un qualche precetto.

All’inizio, gli insegnamenti sull’impurità erano un antidoto all’idea di purezza. E poi finiamo per credere che l’impurità sia una verità ultima, e dimentichiamo che era solo un antidoto. Quando diciamo “le sensazioni causano sofferenza” significa che il senso di felicità che si prova non è veramente senso di felicità, ma è anche sofferenza. Quello che proviamo può sembrare un’esperienza gioiosa, ma in realtà, come tutte le sensazioni, la gioia è profondamente legata alla sofferenza. Riguardo all’insegnamento “le sensazioni causano sofferenza” abbiamo assunto un approccio dogmatico. Eppure sappiamo molto bene che secondo il buddhismo ci sono almeno tre tipi di sensazioni: sensazioni spiacevoli, sensazioni piacevoli e sensazioni neutre. Allora perché ci facciamo il lavaggio del cervello in questo modo? Si direbbe che non ci rendiamo conto che la sofferenza e la felicità sono legate l’una all’altra. Se non c’è l’una, non può esserci l’altra. Per esempio, se non sentissimo freddo, non proveremmo felicità quando indossiamo un cappotto caldo. Senza l’esperienza della sofferenza non possiamo provare felicità. Senza un fondo di sofferenza non possiamo provare gioia. L’una e l’altra intersono. È un aspetto molto importante nel Buddhismo Mahayana. Il Buddhismo Mahayana ha riscoperto molti gioielli preziosi del Buddhismo delle origini che erano rimasti sepolti, e che il Buddhismo Theravada non ha riconosciuto.

Per molto tempo, i nostri studi e la nostra formazione nel tempio hanno seguito questo spirito di indottrinamento. Ma il Buddhismo è una tradizione molto aperta che dice che quando studiamo dobbiamo ricorrere alla nostra visione profonda per discernere in ciò che stiamo studiando. Non dovremmo studiare come un pappagallo, né farci prendere dai dogmi, anche quando studiamo gli insegnamenti su impurità, sofferenza, impermanenza o non-sé.

In passato, come giovane Maestro di Dharma, grazie a una mente critica e aperta, Thầy ha visto molte cose che lo mettevano a disagio nei sutra, per non parlare dei commenti. C’era un elemento molto forte di indottrinamento. Qualcuno con una mente molto rispettosa nei confronti dei nostri maestri ancestrali non avrebbe osato dire nulla. Ma nella storia, di tanto in tanto, ci sono stati maestri zen, come il Maestro Linji, che hanno osato parlare: «Sciocchi! Volete uscire dai tre mondi? Ma una volta usciti dai tre mondi, dove andrete?» Nella tradizione buddista non sono mancati studiosi e rivoluzionari intelligenti. Grazie al rispetto e alla pietà che Thay provava quando vedeva errori nei sutra e nei commenti, trovava sempre il modo di giustificarli, piuttosto che correggerli, perché non osava cambiare nulla: non osava dire che gli antenati avevano torto. Ma negli ultimi decenni Thầy non ha più avuto paura. È già in età avanzata. Thay deve dire ciò che ha visto. Ecco perché negli ultimi cinque o sei ritiri invernali, Thầy ha parlato apertamente degli errori che ha visto, anche nei sutra più fondamentali, come il Sutra del Cuore. Thầy lo ha fatto soprattutto dopo aver scoperto passaggi preziosi come l’oro e preziosi come la giada nel tesoro del Buddhismo delle origini, per esempio nell’Itivuttaka e nell’Udāna, oltre che nel Dhammapada cinese:

O monaci, nel mondo ci sono nascita e morte, ma ci sono anche il non-nato e l’immortale. Nel mondo ci sono l’essere e il non essere, ma ci sono anche il non essere e il non non-essere. Nel mondo ci sono il creatore e il creato, ma ci sono anche ciò che non crea e non è creato. Nel mondo ci sono il condizionato e l’incondizionato, ma ci sono anche ciò che non è né condizionato né incondizionato.

I passi dei sutra come questo sono molto preziosi. Ci sono anche altri passi come nel Kaccāyana Sutra, dove il Buddha dice molto chiaramente che «la maggior parte delle persone nel mondo sono schiave dell’idea di essere e non essere». È grazie a brevi frasi come queste che possiamo correggere gli errori di altri sutra.

Siamo un buon amico, l’amico del cuore del Buddha? Oppure seguiamo il Buddha alla cieca, dicendo che tutto ciò che ascoltiamo è giusto? Se vogliamo essere l’amico del cuore del Buddha dobbiamo avere una mente discriminante e critica. Non possiamo credere a quello che dice chiunque, anche se a parlare è un maestro ancestrale. Un libro come Amico del cuore del Buddha (scritto da Thầy in vietnamita nel 2014) non è un manuale buddhista. Lo si può anche considerare un manuale buddhista, ma in realtà è qualcosa di più avanzato, perché non si limita a spiegare il significato dell’insegnamento, ma offre un’analisi critica che dimostra quali parti dei sutra sono corrette e quali sono trascritte in modo errato; quali parti riflettono la verità suprema e quali sono solo verità convenzionali. Dobbiamo imparare ad usare questo libro per far rivivere lo spirito critico che è chiaramente presente nel Buddhismo.

Il Kālāma Sutra racconta come un gruppo di giovani si recò dal Buddha per porre una domanda. «Ogni maestro religioso che passa per il nostro villaggio dice che il suo insegnamento è il migliore e il più corretto, ma a chi dovremmo credere?» Il Buddha rispose: «Amici, non credete a nulla per fede, anche se è nei sutra o viene insegnato da un famoso maestro. Qualunque cosa udiate, dovete usare la vostra mente penetrante e critica per esaminarla con attenzione, e poi metterla in pratica di persona. Se mettendola in pratica vi libera dalla sofferenza e dalle difficoltà, vedrete chiaramente che si tratta davvero della verità, e allora potrete crederci». Sutra come il Kālāma Sutra indicano chiaramente che il buddhismo è una tradizione molto aperta, sottile e critica. Se trasformassimo il buddhismo in una religione dogmatica, sarebbe un grande peccato per il Buddha. Avremo perso la purezza degli insegnamenti del Buddha e non potremo più dire di essere i suoi amici del cuore.

Thầy
Nhất Hạnh

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What is Mindfulness

Thich Nhat Hanh January 15, 2020

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